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L'addio al Calcio di Ronaldo

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Al Paceambu di San Paolo, con l’amichevole tra Brasile e Romania, terminata 1-0, si è conclusa la splendida carriera di Ronaldo Luis Nazario da Lima. Vincitore di due Mondiali e di due Coppe America, tre volte Fifa World Player, due volte Pallone d’oro e bomber di sempre coi suoi 15 centri della Coppa del Mondo. Bastano questi dati ad indicare la grandezza di un talento forte e così fragile, oltre che così amato dalle folle, ma anche odiato per la sua propensione a cambiare maglia, vestendo con disinvoltura quella dei rivali. Dal Barcellona al Real Madrid, dall’Inter al Milan, evitando almeno il salto diretto.
Per celebrare il suo addio al calcio, comunicato da diversi mesi e effettivo da ieri sera con la dovuta celebrazione della Seleçao, anche noi vogliamo ricordarlo, con un articolo di Italo Cucci, apparso nel Guerin Sportivo 27/2002. Il Fenomeno aveva appena vinto i Mondiali di Giappone e Corea, laureandosi capocannoniere del torneo e artefice di una doppietta in finale: il punto più alto della carriera, appena due mesi dopo le lacrime dell’Olimpico, nel famoso scudetto perso il 5 maggio e appena un mese prima di lasciare l’Inter per approdare al Real Madrid. La sera del 30 giugno 2002 a Yokohama, Ronaldo firmava la sua vendetta sportiva, dopo la delusione del Mondiale di Francia ’98. Lasciamo la parola a Cucci:

«Ho tradito Ronaldo almeno due volte, come Pietro il suo Maestro. L’ho tradito con le parole e con le opere. Devo forse dire che me ne pento? Molto tranquillamente, sì. Posso ampiamente pentirmi perché con lui – come altri – sono in credito. Proprio grazie al “Guerino“, che lo scoprì Fenomeno prima di tutti, che lo adorò (errore?) prima degli altri, che gli dedicò un’attenzione appassionata, quasi paterna, e l’accompagnò fino a quella stramaledetta finale del Mondial 98, piangendone la malasorte. Insieme a Ronaldinha, la sua compagna-amica che seppe rendergli lieve l’arrivo nel tumultuoso calcio italiano e sopportabili quei momenti dolorosi della lunga stagione del malessere. Finché se ne andò e ci parve portasse via con sé il Ronaldo che avevamo conosciuto: il ragazzo dal volto infantile, dal sorriso dentone aperto come una finestra su un futuro felice e invece era in agguato una delle più lunghe stagioni di sofferenza da cui temevamo non sarebbe più uscito, come ingoiato da un tunnel di dolore pari alla gioia che aveva vissuto. E questo fu il primo errore, diciamo il primo tradimento: non ho creduto abbastanza alla sua forza d’animo, direi sostanzialmente alla sua intelligenza. Mi è parso infatti di perderlo nelle notti milanesi di vizietti e sarabande fino al punto di giudicarlo inguaribile, almeno a livello di Fenomeno: diomio, come avrebbe recuperato quello slancio apparentemente ingovernabile dalle sue leve possenti che sapevano improvvisare svolte improbabili e tocchi di palla ignoti ai portieri più esperti che ci cadevano come polli? Così proprio mentre usciva dal primo tunnel (era una crisi dell’anima, più che un vero e proprio malessere fisico, ciò che l’avrebbe colto in quella infame notte parigina), imboccò il secondo, terribile: correva, palla al piede, quasi a provare a tutti – anche a se stesso – l’energia ritrovata, la pienezza della capacità, la possibilità di torcere quelle ginocchia fino a raggiungere la spinta assassina del gol. E invece cadde con un urlo e fu l’immagine della disfatta, della paura eterna, dell’addio. Amen. E invece lo tradivo per la seconda volta, confortato nel pessimismo da un vero e proprio calvario di mesi, di anni, di speranze smentite, di certezze crudeli palesate fra l’Italia e il Brasile, fra Milano e Rio, in un susseguirsi di informazioni che allontanavano sempre di più il suo recupero, fino a farlo considerare perso per sempre. Dico la verità: tra tanti artefici della sua salvezza – e tanti ce ne saranno, ora che ha vinto e guida il carro dei vincitori – il primo è Felipe Scolari, non c’è dubbio; più di Massimo Moratti – il secondo – che ci ha messo amore fede e speranza in dosi massicce, ma non l’intuizione “fisica” del tecnico brasiliano, che ha osato addirittura organizzare la disfatta della squadra oro-verde continuando a insistere sul “suo” Ronaldo, sul Fenomeno che ormai non era più tale neppure per i suoi concittadini, peraltro così ricchi di speranza e ottimismo da far casino per portare al Mondiale Romario, la figurina di se stesso e nulla più. Non voglio farmi travolgere dal trionfalismo e dire che finalmente Ronaldo è recuperato al cento per cento alla realtà del calcio italiano, più duro e più impietoso di un Mondiale, ma sento di dovere assecondare la Favola di Ronaldo perché il destino sta restituendogli quello che gli ha tolto, perché quei due gol che lo hanno fatto Campione del Mondo non sono stati neppure belli, ma decisivi sì, la prova provata di un ritorno; quelli più belli – pensateci – li ha sbagliati, forse perché voleva segnarli da Ronaldo e invece quelli veri, quelli della vittoria, sono venuti “da calciatore”. E su quelli ha pianto, mentre il tabellone dello stadio internazionale di Yokohama sparava la sua faccia nascosta fra le mani, e le spalle tremanti nei singhiozzi, forse anche il cuore in tumulto, si vedeva, ed era un capitolo importante nella storia di un ragazzo, non di un Fenomeno. Spero che l’Inter lo ritrovi per farlo guida di una rivincita che è cominciata con il Mondo e deve ancora toccare l’Italia. Spero che lui si ricordi, anche nelle notti folli di Rio, di quanto gli è stato amico e padre Massimo Moratti, uno – forse l’unico – che fa sembrare umano anche il calciobusiness all’italiana. Vai Ronaldo, e goditi la vita. Adesso siamo pari».

Giovanni Del Bianco
delbianco.giovanni@gmail.com


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